Ballata per la figlia del macellaio
Peter Manseau è nientemeno che il figlio di un
prete e di una monaca che abbandonano i voti e decidono di sposarsi nel 1960.
La sua infanzia viene raccontata in Vows:
The Story Of A Priest, A Nun, And Their Son. Cresciuto in uno stravagante quanto liberale e devoto
contesto religioso, Manseau, con Ballata
per la figlia del macellaio vince nel 2008 il National Jewish Book Award.
Ed è il primo non ebreo ad ottenere il prestigioso premio. Perché la Ballata è
di sicuro un libro sulla lingua, sull’identità, sulla traduzione; è un libro
d’avventura, se si vuole, una storia che galoppa lungo un itinerario vasto e
diversissimo. Saga moderna, un romanzo di formazione, la storia di un amore
immaginato e rincorso.
Ma è soprattutto una storia yiddish, sulla lingua yiddish.
Peter Manseau, Ballata per la figlia del macellaio, Fazi Editore, 2009 |
Da subito il poeta si scopre
tale. Vittima di una sorta di bulimia creativa, Itsik compone i suoi primi
versi. “Come potevo essere un ragazzo fatto di carne e di ossa e, allo stesso
tempo, un uomo fatto di parole?”. Legge e scrive di continuo e il suo cuore si
gonfia al pensiero della piccola Sasha.
Stretta nella mano la foto della
bambina e l’indirizzo della famiglia Bimko, fuggita da Kishinev la notte del pogrom, Malpesh inizia il suo lungo
viaggio. Ad Odessa incontra l’oste-tipografo e proprio in una bettola di infimo
ordine vengono alla luce domande e tormenti attorno a lingua e identità.
Sono gli anni in cui i primi
pionieri ebrei raggiungono la Palestina. Il sogno della rigenerazione, dell’ebreo
nuovo. Un passato fatto di persecuzione e violenza, ma un futuro che si vuole
finalmente costruire con le proprie mani. Al centro vi è il lavoro agricolo; la
terra da sempre preclusa e che in Palestina deve essere coltivata e modellata
come un figlio. La propria creatura. Il perno di questo progetto è la lingua,
che sarà l’ebraico, l’idioma con cui dio si è rivolto al suo popolo.
“Sono giornalisti. Metà di loro
legge in yiddish, l’altra metà in ebraico. Metà sono sionisti e metà
socialisti. Metà sono praticanti e metà si reputano liberi pensatori. Metà sono
di qui e metà sono venuti, come dice il detto, per vivere da dèi a Odessa. Tra
questi, la metà crede in dio e l’altra metà non ci crede, cosa che mi porta a
chiedermi se intendono vivere come qualcuno che non esiste. Naturalmente, metà
dei presenti non sa di che parla. Una metà lo sa. Una metà potrebbe saperlo, a
seconda di quanto ha bevuto. E l’altra non lo saprà mai”.
Nella taverna di Odessa si
scontrano ogni sera fazioni opposte, risse e litigi sono all’ordine del giorno.
L’oste bagna tutto con litri di vino, mentre di notte conduce Malpesh al
laboratorio di tipografia. “[…] Credo sia questo il motivo per cui ho
quest’attrezzatura: vendo bicchierini e stampo giornali, ed entrambi mi
informano sulla costruzione del linguaggio”.
Dieci anni ad Odessa a stampare
giornali in yiddish nel retrobottega di un’osteria e poi l’America, la terra
dell’Oro. Qui ogni sogno sembra possibile, forse riuscirà davvero a lavorare
come poeta.
L’America è anche il luogo in cui
si snoda la seconda storia, quella del traduttore delle memorie del poeta. Un
giovane americano che lavora come bibliotecario per un’organizzazione ebraica.
Due vite che sembrano tanto lontane ma che pian piano si avvicinano, si toccano
fino ad incastrarsi.
Il libro in alcuni punti pare
quasi strabordare. Tante le cose da dire e l’autore stesso sembra preda di
quella compulsività creativa propria del protagonista. Le avventure di Malpesh,
narrate con una prosa impeccabile, ironica e vorticosa, fanno da ombrello ad
una serie di questioni che affiorano, carsicamente, durante tutto il libro.
Anzitutto la responsabilità, delicatissima, del traduttore, di consegnare ai posteri
l’opera del poeta così come egli l’ha concepita e prodotta. Eppure egli lavora
il testo, lo fa suo, inevitabilmente lo plasma, lo segna. È attraverso le sue
mani che le memorie vengono condotte agli altri.
Affascinante il legame che viene
continuamente esaltato fra lingua e identità. Ricordo Aaron Appelfeld che in Storia di una vita racconta delle
difficoltà, una volta giunto in Palestina, di far proprio l’ebraico. La
necessità di agganciare il nuovo linguaggio a degli affetti, a qualche ricordo,
per renderlo meno distante e accoglierlo come proprio. “Dal momento in cui ero
giunto in Palestina avevo odiato coloro che mi costringevano a parlare
l’ebraico, e con la morte della mia lingua madre la mia ostilità nei loro
confronti crebbe ulteriormente. Era chiaro che l’ostilità non diminuiva le
difficoltà, anzi le accentuava, rendeva la situazione ancora più nitida: non
ero né qui né lì. Ciò che avevo posseduto, i genitori, la casa e la lingua
madre, era perduto per sempre, e questa lingua, che aveva promesso di essere
madre, non era altro che matrigna”[1].
Ballata per la figlia del macellaio è una splendida ed emozionante ode alla cultura yiddish, un inno alla parola e al linguaggio, alla vita e ai suoi strani percorsi. Ai sentieri che si intrecciano e si ricongiungono. Un piccolo manuale di sopravvivenza per i sogni, un invito ad architettarli, a disegnarli, a cantarli con l’impeto e l’ingenuità del primo innamoramento.
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