Lui era mio padre

Joann Sfar è un autore difficilmente catalogabile; lo apprezzo e lo attendo tra gli scaffali in libreria anche per questo. Talento poliedrico, nizzardo di nascita, classe 1971, conosciuto soprattutto come autore di fumetti ("Il gatto del rabbino" e "Se Dio esiste") è anche scrittore e regista cinematografico. 
Una creatività, la sua, difficile da imbrigliare, che per esprimersi ha bisogno di indagare le potenzialità di diversi codici comunicativi, da quello visuale al verbale.

Ho appena terminato “Lui era mio padre”, uscito quest’anno in Italia grazie alle Edizioni Clichy e lo palleggio tra le mani, indecisa sul da farsi. L’ho letto d’un fiato e masticato in un boccone, l’ho aperto e non l’ho più richiuso e ora mi pare di doverlo cominciare daccapo e con calma indugiare su alcune pagine, tra le righe di alcuni passaggi.
Mi trattengo e preferisco scrivere di getto alcuni pensieri a caldo, un po’ confusi perché il libro non ha una sua linearità. Ma mi permetterà, forse, di estrapolare con più efficacia la sostanza multiforme di questo testo.

Il libro è un lungo e articolato epitaffio scritto nei giorni successivi la morte del padre. A ripensarci, riesco a immaginarlo anche come una raccolta di frammenti, cocci sparsi di ricordi, memorie e istantanee; invece la sua forma finale corrisponde di più ad un monologo interiore, con i suoi saliscendi umorali, i suoi picchi di patos, la confusione ordinata che scaturisce dalla codificazione dei pensieri spezzati, morbosi, occasionali o ricorrenti, in una catena sintattica comunemente accessibile. L’autore non ha filtri, o almeno così sembra farci credere: pensa parla e scrive.
Orfano di madre dall’età di tre anni, un’esistenza a confrontarsi con la figura imponente e a volte ingombrante di un padre dalla personalità debordante, ebreo algerino, avvocato di successo e dongiovanni impenitente. 

“Ovviamente tutto era iniziato per la rabbia di non essere deportato. Era stata una questione di pochi giorni. Ma insomma, può creare un senso di colpa a vita. Hitler si era lasciato sfuggire gli ebrei di Algeria e con questa omissione si era fatto un nemico alla sua altezza: papà. Faccio notare che papà è nato l’anno in cui lo zietto Dolphi è diventato cancelliere: 1933. È anche l’anno in cui è stato scoperto il mostro di Loch Ness. E l’anno, infine, in cui usciva King Kong al cinema. Mio padre, mica roba da poco”

Un rapporto che l’autore ricostruisce con la perizia di un mosaicista (e la cura del regista di talento che seleziona e compone fotogrammi) affiancando e spesso sovrapponendo immagini, ricordi, in un dialogo serrato tra passato e presente, tra presenza e assenza, vicinanza e lontananza. Perché trovare la distanza adeguata cui guardare ai nostri genitori è sempre difficile. Movimenti millimetrici sono in grado di frantumare un equilibrio friabile che va periodicamente rinegoziato e calibrato.
L’autore impasta esperienze personali a ricordi famigliari e intesse la trama amara e liberatoria dell’elaborazione del lutto. Ripercorre la sua vita alla luce della figura del padre e ci regala alcuni attimi commoventi, ma non stucchevoli, di un legame solido e teso, mai scontato.

“Ecco cosa accade quando si perde il padre: non si ha più nessuno da sbalordire. Mio padre si è fatto sfondare la colonna vertebrale dall’estrema destra francese di Algeria quando difendeva gli arabi in sciopero. Il prefetto della polizia di Algeri è andato a trovarlo e gli ha detto << Lei se ne va in madrepatria >>. E papà ha risposto che spettava alle autorità francesi assicurargli una protezione. Ha discusso la tesi in legge scortato da due poliziotti, perché i futuri OAS volevano fargli la pelle”.

La figura paterna pone sul piatto della memoria e delle radici anche il confronto con l’ebraismo e il rapporto con dio, che parte dal Bar Mitzvah e arriva al dilemma se circoncidere o meno i propri figli. Un rapporto originale e fuori dagli schemi che ricalca in parte il dialogo con il padre, in tensione tra ammirazione e ingombro. Ebraismo significa soprattutto intrecci famigliari e, in questo contesto, l’autore regala piccoli ritratti coinvolgenti di pezzi della propria famiglia:

“Anche nonno Arthur, il mio nonno materno quando era ancora vivo mi ordinava <<Ti proibisco, ascoltami bene, ti proibisco di recitare la benché minima preghiera triste in mia memoria. Faccio già una fatica folle a capire perché sei monogamo, non aggiungere anche il bigottismo, altrimenti sarà morto per niente>>. Era un wunderkind, i bambini che in Ucraina sono destinati al rabbinato. Da quando aveva otto-dieci anni sapeva il Talmud a memoria. Ovviamente, la notte della sua morte, pregava in yiddish. Ma a me non ha mai detto nient’altro che: <<Non essere triste, bisogna ridere, bisogna amare>>”.

L’intera narrazione, così composita e imprevedibile, è sorretta da un umorismo che a tratti si vela di sarcasmo, che diventa traccia del passato e lente sul presente nel suo essere, a me pare, così spontaneamente yiddish. L’autore si spoglia, tra le pagine del suo libro, non esita a prendere in mano debolezze e pensieri sordidi; condivide con il lettore difficoltà e paure, quali ingranaggi di un complicato processo taumaturgico.
Mai apologetico, dunque, “Lui era mio padre” è un testo scritto per sé, una sorta di bolla di risarcimento con cui ricomporre i tasselli di rapporti spezzati o ambigui o semplicemente mutevoli. Non è per noi questo libro, è solo un regalo, intimo e privato, che scartiamo con cura e pazienza, lentamente, sbirciando tra le pieghe della carta.

https://edizioniclichy.it/libro/lui-era-mio-padre




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