Ernesto

Illustrazione blancucha
Salì sull'autobus con un balzo atletico. Arruffato ma non in affanno si guardò attorno, mentre il tram riprendeva la sua corsa. Ernesto non era vecchio, ma nemmeno di primo pelo, lo sguardo affilato di chi del mondo ha conosciuto gli anfratti più bui. L'occhio vispo ma non indisponente e una barbetta canuta e ispida alla base del mento gli conferivano quell'aria gioviale e intelligente.
Cercò un posto a sedere e si arrampicò, con qualche difficoltà, sui sedili in fondo. Da qui la panoramica dell'autobus era completa: poteva godere di una vista privilegiata, da lassù, sul sedile lievemente rialzato, monitorava le entrate e le uscite, l'occhio dell'autista riflesso sul grande specchio retrovisore sopra la cabina, la vecchia pazza puzzolente che concionava solitaria, quell'uomo alto che lo guardava teneramente in cerca di un'occhiata di complicità.
“Ernesto!” chiamò la vecchina accanto “Ernesto!” Reiterò con un urletto acuto e stridulo. Si girò di scatto, Ernesto, la testa alta e fiera, la postura sicura e tesa di chi è abituato a guardarsi le spalle. Ernesto sono io, embè, che vuoi vecchia? Pensò, ma le parole rimasero incastrate fra i denti. Chi era? Cosa voleva? E soprattutto, come conosceva il suo nome?
La vecchina si distrasse subito e iniziò una conversazione mediocre con la ragazza seduta dietro di lui.

Illustrazione Iv Orlov
Rimase confuso e un poco rimbambito da quel breve episodio. Poi si accorse che molti lo stavano guardando. Con le teste un poco inclinate verso una spalla, in segno di accondiscendenza, gli sorridevano timidamente e sembravano sussurrargli parole senza senso. Pupetto, tesoro, ma che bellino, stellina, cuccioletto. Ma cosa volevano? Cosa stava succedendo?
La vecchia e la ragazza al suo fianco continuavano a parlare di cani, di cani che annusavano l'aria, di cani messi dentro ad una borsa, di cani ubbidienti, di cani che abbaiavano e di cani che non c'erano più.
Persone salivano ad ogni fermata, zuppe d'acqua, con gli ombrelli gocciolanti, le scarpe lasciavano i segni delle suole fangose. Odori riempivano l'abitacolo, come gas saturo, odori di sottobosco, di lombrichi gelatinosi, di erba ammuffita, di corteccia, di resina, di peli bagnati. Sentì come una voce partire dallo stomaco, un grido ancestrale che si trasformava in inquietudine, una rozza voglia che pervadeva le vene, si mescolava al sangue e irrorava tutti gli organi e poi saliva, come il fumo di un camino, fino al cervello. La centralina impazzisce, blackout, luci a intermittenza, il fischio di una locomotiva lanciata a tutta velocità, la vista si annebbia, sinapsi esplodono, un tremito si impossessa di tutto il corpo.
Piscio, odore acre di piscio.
L'urina gonfia inaspettatamente la vescica, pulsa come cuore innamorato, lo stomaco si ritrae e diventa pietra. Ernesto, una voce rimbomba nella scatola cranica, Ernesto, un nome, adesso vuoto, senza senso. Ernesto sono io e sono tutte le generazione prima di me. Ernesto è un codice genetico che non smette di tramandarsi, una traccia del passato che si affaccia violenta nel presente. Ernesto sono io, sì vecchia, sono io che sto su questo autobus, sono lo sperma che si prepara alla risalita, sono la traccia del mio passaggio.
Piscio, piscio che esplode, il naso trascina tutto il corpo nel suo fiutare, spinge inclemente verso quel palo. Io sono Ernesto e sono stato qui, a dar conto del mio passaggio, del mio fiero fiutare.

Illustrazione Jared Chapman

È un attimo, mentre prepara lo slancio verso il palo di fronte, la ragazza accanto lo afferra per la pancia e se lo sistema sotto il braccio. Saluta con la mano la vecchina e accarezza Ernesto arruffandogli il pelo. Le porte si aprono e lei accompagna il balzo del cane verso terra. Il cemento ancora umido sotto le zampe ruvide, Ernesto annusa impettito l'aria, nobile rappresentante di una stirpe di segugi. Sarà per un'altra volta, pensa sornione, e guarda verso l'alto, in attesa di direttive, la sua giovane accompagnatrice.

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