Le nostre anime di notte



“Lui consumò una cena leggera, soltanto un panino e un bicchiere di latte, non voleva sentirsi goffo e appesantito una volta a letto con lei, quindi fece una lunga doccia calda strofinandosi a fondo. Si tagliò le unghie delle mani e dei piedi e la sera uscì dalla porta sul retro e percorse il vialetto posteriore con un sacchetto di carta che conteneva pigiama e spazzolino da denti. Il vialetto era buio e i suoi piedi facevano un rumore fastidioso sulla ghiaia. Dalla casa sull’altro lato della strada proveniva una luce, vide una donna di profilo accanto al lavandino della cucina. Proseguì fino al cortile sul retro della casa di Addie Moore, ci entrò, superò il garage e il giardino e bussò alla porta posteriore. Attese un po’. Un’automobile percorse la via di fronte alla casa con i fari che brillavano. Sentiva i ragazzi delle superiori che salutavano suonando il clacson lungo Main Street. Poi sopra di lui si accese la luce della veranda e la porta si aprì”

In questa nitida istantanea vi è gran parte della storia di “Le nostre anime di notte” e dei suoi sviluppi. 
Sulla scrittura di Haruf non mi soffermo, perché lo hanno fatto in molti, ma ci tengo a sottolineare la straordinaria attitudine di questo autore a comunicare ad un pubblico molto ampio e composito attraverso una lingua asciutta e minimale, una narrazione per sottrazione, cesellata e scalpellata, frutto di un lavoro certosino di messa a punto. La forza di questo linguaggio a momenti quasi cronachistico sta nella capacità di cogliere con precisione ed equilibrio momenti di introspezione e di scandagliare, come un palombaro, i fondali dell’animo umano. Ma senza voyeurismo, senza alcuna punta di morbosità. È su questo terreno per lo più intimistico che si sviluppa “Le nostre anime di notte”, una narrazione a lume di candela, fatta di chiaroscuri privati e di sfumature velate appena percettibili. Un libro che sprigiona con misurata capacità il senso piccolo e personale del vivere, racchiuso in un pugno serrato appena e timidamente scoperto al buio dell’imbrunire.

La trama è immediata e semplice: Addie e Louis sono due vecchi abitanti della contea di Holt. Vivono nella solitudine di una vedovanza prolungata, i figli ormai lontani dal nido famigliare. Della solitudine ci si fa il callo, specie quando diventa quotidiano. Si fa compagna di giornate, detta il ritmo di una vita senza picchi né soprese. Ma c’è un momento nella giornata, durante il quale il vuoto si gonfia e il silenzio cala come nebbia nelle stanze di casa: la notte. La notte senza sonno, la notte fatta di letture a luce accesa, la notte che non passa, che trascina un tempo stirato, lento, farraginoso. Addormentarsi la sera, da soli, non è facile. La notte diventa pertugio attraverso cui i fantasmi di una vita risalgono in superficie.
Addie va da Louis a chiedere proprio questo: di attutire la morsa della solitudine che si stringe a partire dalle ore del tramonto. 

“Mi chiedevo se ti andrebbe qualche volta di venire a dormire da me”

La richiesta è semplice e dirompente allo stesso tempo. Spiazzante nella sua semplicità. Distesi uno accanto all’altro nel grande letto matrimoniale, avvolti dal buio notturno, a raccontarsi chi si è stati o ciò che si è fatto. Ancora una istantanea dai contorni puliti, di immediata ricezione eppure gonfia di poesia.

                   

Il prosieguo lo lascio alla lettura. Ancora un particolare, che aiuta a cogliere la grana di questo romanzo, le tinte seppia di cui esso è spennellato.
Haruf scrive a partire dalla cognizione della morte: è gravemente malato, sa che avrà a disposizione ancora pochi mesi da vivere e il tempo presente si sbriciola di giorno in giorno. Non si può ignorare questa condizione quando si ha tra le mani questo libro, si andrebbe a perdere una tonalità di gusto importante. Perché vi è al suo interno un senso di urgenza, non direttamente palesato o strillato, ma che sottende azioni, pensieri e dialoghi e che diventa strumento lenticolare attraverso cui leggere la vicenda di Annie e Louis. Un senso poroso di tempo passato, di occasioni mancate e di consapevolezza che lo spazio a disposizione per cambiare rotta si assottiglia poco a poco.
E infine, c’è il tempo che scivola lento sulle esistenze di Holt, che non accelera e non frena ma accompagna, come un fiume che scorre allo scorrere di stagioni e mesi. Un tempo, quello dei libri di Haruf, che mi pare aderisca al lento moto dei pensieri, al galleggiare di emozioni che non perdono mai la misura, che non esplodono né si infrangono, che non scalpitano né spingono, ma che affiorano in una superficie che le accoglie e che ne cura la sempre presente carica poetica.

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