Dei tempi dello scrivere e dei tempi del vivere

La Lettura, l'inserto domenicale del Corriere della Sera, l'apertura è di Marco Missiroli.

L'autore parte dalla propria esperienza di scrittore e si interroga sui tempi dello scrivere e sul rapporto tra produzione personale e tensione alla pubblicazione. Scandaglia la grande angoscia, quella nella quale hanno annaspato molti grandi autori, la paura del vuoto, la perdita dell'ispirazione, la lenta marcia verso l'oblio.

"Affrettati, spicciati, datti una mossa. E io nel mio piccolo penso di nuovo al buon James, a come magari si accarezzava l'occhio malandato nel momento dell'assalto, e penso a Ernest e a Emmanuel, alla truppa che ha il terrore del vuoto ma che non teme di starci dentro fino al collo"





 Dai tempi editoriali lo zompo ai tempi della vita è immediato. Da un po' accarezzo l'idea di raccogliere articoli e libri, a partire da angolazioni e campi diversi, che mettano al centro della riflessione la questione del tempo, del nostro tempo di vita, quello che immoliamo al lavoro, alla frenesia dei nostri affannati tempi urbani. E ritrovo in questo bell'articolo, biografico ma non solo, quello spunto, quella scintilla. Perché forse la prima rivoluzione da compiere è proprio quella sui ritmi. Ricordo all'epoca (sembra un'era fa, un'altra galassia), la battaglia per le 35 ore settimanali, che in fondo, altro non era che la rivendicazione del nostro tempo personale, la richiesta di non sacrificare la propria esistenza alle logiche di produzione e di mercato, ma la possibilità di scegliere cosa fare del proprio tempo di vita. Quella battaglia, che in fondo era significativa ma non rivoluzionaria, che oggi sembra preistoria e rimanda ad uno spazio che non è più percorribile, ci ricordava anche che la frenesia di cui eravamo e siamo vittime, che la vocazione al consumo e alla produzione, riduce il nostro tempo su questo pianeta, e lo devitalizza. Deleghiamo il nostro tempo ad altri, e pian piano erodiamo la nostra libertà, che è quella di poter disporre liberamente del proprio tempo.
Ritrovo in questo articolo semplici parole d'ordine attorno alle quali forse dovremmo ricostruire  la nostra grammatica di vita: rinuncia, sottrazione, vuoto.
Uno spazio bianco, una stanza sgombra, la rinuncia al superfluo. Un pomeriggio d'ozio, senza colpa, senza affanno. Distesi a letto e rimirare le crepe del soffitto. Un tempo fatto di niente, svuotato di materia e per questo denso di significato. Sottrarsi semplicemente a ciò che non ci piace, a ciò che ci rende schiavi, che logora il controllo su di noi. Diminuire la produzione significa privilegiare la qualità a danno della quantità. E attorno a noi ruota il troppo, il tanto. Siamo intasati e il nostro tempo sfugge tra le pieghe dei nostri impegni, del nostro lavoro spesso frustrante e alienante. Rallentare vuol dire anche prendersi il tempo per riflettere, per elaborare, ascoltare il nostro corpo che metabolizza parole, fatti e immagini. Fermarsi, non un colpa, una necessità.


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